Quando l’amore entra nelle nostre
vite, ci sembra che tutto funzioni per effetto di magia. Che tutto sia
perfetto. E soprattutto destinato a durare per sempre.
L’estate del 1985, o perlomeno
quel che ne rimaneva dopo quella notte in cui Bettina mi prese e fece di me una
donna, la sua donna, fu uno dei momenti magici della mia vita. Ero innamorata,
ero felice, ero letteralmente ai piedi della ragazza con cui sentivo di voler
passare il resto della mia vita. E mi sentivo ricambiata. I lunghi anni della
mia adolescenza in cui ero stata dilaniata da un senso del peccato che mi aveva
reso quasi inaccettabile a me stessa ormai erano distanti, come se non fossero
mai esistiti. C’era solo Bettina, era il mio passato, il mio presente ed il mio
futuro. Ci amavamo perdutamente, ed il mondo era tutto lì, nella capitale del
Regno Unito di Gran Bretagna. La capitale del nostro amore....
In quei giorni che ci separavano
da un ritorno a casa a cui nessuna delle due cercava di pensare, ci comportammo
come due sposine in luna di miele. Piene di mille attenzioni l’una per l’altra,
piene di gesti affettuosi, piene di erotismo traboccante e malcelato. Londra
era già allora una città dove, in alcuni luoghi e circostanze, due donne si
potevano baciare in pubblico, tenere per mano, scambiarsi delle effusioni.
Quando la misura era colma e la
diga del nostro pudore messo a dura prova traboccava, c’era il nostro
appartamento a darci rifugio. Finivamo a strapparci di dosso i vestiti appena
chiusa la porta, pochi passi dopo eravamo completamente nude, le mani e le
labbra che frugavano l’amata per ogni dove. Le nostre grida di piacere avevano
sempre meno ritegno ad attutirle. I nostri imbarazzi, i nostri tabu si
dissolvevano man mano che amore ed eros prendevano il sopravvento. Man mano che
l’esperienza sessuale che ognuna maturava sul corpo dell’altra ampliavano le
nostre possibilità ed estendevano le nostre fantasie.
Ricordo che mi svegliavo spesso
prima di lei (era una dormigliona, la mia Bettina…) e rimanevo per lungo tempo
estasiata a guardarla. A perdermi nei tratti così dolci e delicati del suo
volto, nelle linee sinuose del suo corpo….a fantasticare sul nostro amore, a
sognare il futuro, a combattere la voglia di svegliarla e riprendere i nostri
giochi….
A volte non resistevo. Svegliavo
la mia principessa, ma non come nelle favole, con un tenue bacio sulle labbra,
appena sfiorate. No, io la mia Bella Addormentata la ridestavo secondo quei
gusti che grazie a lei avevo scoperto di possedere. Oltre che lesbica, ero
anche feticista. Adoravo i suoi piedini. Ho sempre adorato i piedi delle donne,
nelle mie fantasie li ho sempre tenuti ai primi posti per quanto riguarda le
tecniche di seduzione. Quando dico che ero ai piedi di Bettina, non lo dico in
senso metaforico. Lei del resto adorava questa mia attenzione. Mi lasciava fare
dissolvendosi nella voluttà che in questo modo riuscivo a darle.
In fondo al letto, prendevo uno
dei suoi piedi e cominciavo a baciarne le dita, indugiando con tutta la
tenerezza e la libidine di cui ero capace su ciascuna di esse. Poi, quando
sentivo che nel sonno il suo respiro si faceva affannoso come il mio, la mia
lingua prendeva a scorrere sulla pianta del suo piede. Finiva per svegliarsi
sempre troppo presto. I suoi occhi velati dal sonno residuo e dal piacere mi fissavano.
Da lì in poi, il gioco era lo stesso. “Facciamo colazione?”, le chiedevo. “Cosa
vorresti per colazione?”, mi rispondeva lei, con la voce seducente che non ho
mai più sentito a nessun’altra. “Vorrei un breakfast tra le tue cosce”,
ribattevo con voce – credo – altrettanto rauca e sexy. Ovviamente, non
aspettavo il suo assenso per servirmi il pasto. Un attimo dopo, la mia lingua
era sul suo clitoride, e per lei era troppo tardi comunque per negarmelo...
Un altro gioco, quando cenavamo in casa, era quello di far finta di perdermi nei miei pensieri. Immancabile, dopo un po’ la sua curiosità prendeva il sopravvento. “A che stai pensando?” “Mmmmm…..niente….”, mi facevo pregare. “Dimmelo”, si faceva insistente, mentre uno dei suoi piedi risaliva tra le mie gambe, a ribadire urgenza ed insistenza.
Un altro gioco, quando cenavamo in casa, era quello di far finta di perdermi nei miei pensieri. Immancabile, dopo un po’ la sua curiosità prendeva il sopravvento. “A che stai pensando?” “Mmmmm…..niente….”, mi facevo pregare. “Dimmelo”, si faceva insistente, mentre uno dei suoi piedi risaliva tra le mie gambe, a ribadire urgenza ed insistenza.
“Mah…..che ti vorrei tanto seduta
sulla mia faccia, senza mutandine….”
La cena finiva così, con la
leggera e deliziosa apnea che Bettina mi provocava sistemandosi seduta sopra di
me. Muovendosi, dimenandosi, usandomi per il suo piacere, finché questo piacere
non mi riempiva la bocca. O finché, dispettosa, non mi avventuravo in qualcosa
di nuovo. Scoprendo di me stessa qualcosa di nuovo. Come la sera in cui
realizzai come e quanto mi piaceva l’anilingus, se sulla mia faccia c’era
Bettina.
La mia adoratissima
Bettina….sognavo di vivere con lei una passione senza limiti fino alla fine dei
tempi…… Ma l’estate volgeva alla fine, Londra era un porto che di lì a poco
avrebbe chiuso per l’inverno. Le nostre case e le nostre famiglie ci
reclamavano. Il nostro amore di adolescenti appena diventate donne era di
fronte ad una prova che non poteva superare.
Ci promettemmo di tutto e di più
per l’intero viaggio di ritorno. L’ultimo bacio, piangendo come due fontane, ce
lo demmo in una toilette della Stazione Termini di Roma. Lei era arrivata, io
proseguivo. Strette l’una all’altra ad imprimersi come un marchio a fuoco le nostre forme, a
trasmetterci il nostro calore, ci facemmo del bene e del male l’ultima volta
prima di separare le nostre mani, le nostre labbra, i nostri cuori. Cinque
minuti dopo, ero sola di nuovo. Bettina non c’era più. Ero tornata nel mondo in
cui per me non c’era amore.
O così almeno credevo. Vivevo e
vivo in una piccola città di provincia. Un posto dove le donne non possono
amare altre donne, ma neanche dar mostra di avere in pubblico una qualunque
forma di vita sessuale. O perlomeno non potevano all’epoca, ma anche adesso le
cose son cambiate meno di quanto si creda.
Il fatto era che io non potevo
più tornare indietro, alle mie masturbazioni furibonde sui giornalini di un
fratello che nel frattempo era andato a vivere per conto suo, facendo tra
l’altro sparire la sua biblioteca privata che tanto sollievo e tante speranze
mi aveva dato negli anni addietro. Gli anni prima di Bettina, di Londra, di
Saffo sacerdotessa di Lesbo che era diventata la mia Musa, la mia unica Dea.
Non era più tempo di giornaletti.
Non era quello però il posto dove una donna omosessuale potesse uscire a fare
incontri ed amicizie con donne delle stesse inclinazioni. Una lesbica era
semplicemente qualcosa di cui non si parlava. Che non esisteva. Per me lì non
c’era più vita.
Andavo a trovare la mia promessa
sposa Bettina appena potevo. Ma Roma non era Londra, e me ne accorsi presto.
Non c’era la stessa libertà che avevamo avuto in Inghilterra, anche perché lei
– come me – viveva in famiglia. E anche a Roma i gay bar e le pensioncine
compiacenti non era che abbondassero, all’epoca. E poi….qualcosa si era
incrinato, tra noi. Ci piacesse o no, il ritorno a casa aveva disperso l’aura
di magia che era stata cosparsa su di noi da qualche fatina buona nei dintorni
di Piccadilly.
Le prime volte che andavo da lei,
tra noi c’era ancora passione, quanto bastava per appartarci da qualche parte e
scoprire se ci ricordavamo ancora come si facevano certi giochetti. Come si
faceva l’amore. Poi, a poco a poco, più o meno l’estate seguente a quella che
avevamo passato insieme, ci rendemmo conto che era subentrato un tenero
affetto, probabilmente una amicizia di quelle che restano per la vita. Ma
l’amore aveva reso le armi al nostro mondo. Il mondo aveva vinto. Il mondo
vince sempre.
Ricordo la sera in cui, tornando
in treno, mi scoprii a pensare che era l’ultima volta che facevo quella strada.
Che non sarei tornata più a trovare Bettina. Che l’avrei amata nei miei ricordi
per il resto della mia vita, per quello che era stata, per quello che c’era
stato tra noi. Era la donna che mi aveva sverginata. Era la donna che mi aveva
fatto innamorare per la prima volta, il primo amore che non si scorda mai. Ma
che quasi mai resta accanto a noi per la vita.
Non ho mai più saputo niente di
lei. Non ho voluto saperlo. Spero solo che stia bene. Spero che si ricordi
della nostra prima notte come me ne ricordo io.
Era tempo di riprendere la
strada. Peccato che era una strada deserta. Non avevo più un grande amore, non
sapevo dove battere la testa per trovarne un altro. Magari con meno magia, ma
con più possibilità. Di andarmene da casa non se ne parlava, non potevo
permettermelo. Roma era off limits, non potevo correre il rischio di ritrovare
“lei”, tra dieci milioni di persone. Al massimo, potevo spingermi fino al mio
capoluogo. Ma il budget familiare non lo consentiva. Ero confinata lì, in
attesa di un’altra fatina buona che si fosse accorta di me ed impietosita.
La solitudine, come sarebbe
successo altre volte, accrebbe a dismisura la mia libidine. Privata di
sentimenti più profondi, scoprii di avere delle voglie sessuali impetuose.
Frutto a loro volta di fantasie sconfinate, spregiudicate. Fantasie che
qualcuno si ostina a definire “perverse”, come facevano talvolta i miei cari,
vecchi giornaletti. Fantasie che invece, finché non si fa del male a nessuno,
sono il sale dell’anima ed il calore della notte come e quanto i grandi amori
scritti sulle pagine di Via col Vento.
Scoprii che, se appena ne avevo
la chance, potevo diventare una puttanella felice.
Ero al terzo anno di università.
Praticamente ridiventata vergine, causa astinenza forzata. Dovevo dare l’esame
della seconda lingua, intesa come materia di studio. Come organo, in quel
momento, la lingua non mi serviva ad altro, e tanto valeva mi applicassi allo
studio. Oltre all’inglese, in cui me la cavavo malgrado avessi trascorso lo
stage estivo a Londra più con la testa tra le cosce di Bettina che sui libri,
avevo scelto francese. Di cui ero digiuna. Mi iscrissi al laboratorio, e un bel
giorno andai a prendere la prima lezione.
Catherine era una di quelle
francesi che per qualche strana ragione preferiscono l’Italia al loro paese. Non
aveva sposato italiani, forse si era innamorata dell’arte nostrana, o forse a
casa sua c’era qualcosa di altrettanto opprimente. Era mora (fino a Tippy ho
creduto di avere una predilezione per questa tonalità), alta come me, slanciata
ma con la corporatura di una donna matura. Bellissime fattezze, una specie di
Sylvia Kristel per capirsi.
Mi ritrovai fin da subito a
rimuginare su quelle sue fattezze, sui motivi per cui lei si trovava lì, sulle
possibilità che avevo di conoscerla meglio. Le fantasie erotiche venivano da
sé, inarrestabili. Ma a quel punto riuscivo a relegarle in quel sottoscala del
cervello in cui avevo riposto tutto ciò che aveva a che fare con il sesso.
Fino al pomeriggio in cui ebbi il
coraggio di rivolgerle la parola. E misi in moto una catena di eventi che
andava ben oltre l’esame di francese.
Ero stata persa nella visione del
suo seno nudo che si intravedeva sotto la camicetta, cercando di coglierne i
contorni soprattutto quando il suo camminare avanti e indietro durante la
lezione me la offriva di profilo. In alternativa, c’erano le sue gambe da
infarto, un vero schianto, con i piedi ben fatti calzati in un decolletée
(qualcosa di francese ho imparato) che mi rendeva più pervertita del solito.
Lei dovette accorgersi che ero
altrove, perché un paio di volte mi rivolse la parola, con la bocca atteggiata
ad un sorrisetto ironico che era qualcosa di più rispetto a quello della
Monnalisa. Ovviamente, di cosa mi aveva chiesto non avevo recepito nulla, e
feci la figura della scolaretta sciocca, colta su qualche fatto.
“Madame….?”, le chiesi incerta a
fine lezione, mentre gli altri studenti lasciavano l’aula.
“Oui, ma cherie?....” rispose
lei, sempre gentile ed alla mano, sempre con quel sorrisetto a mezza bocca.
La conversazione proseguì in italiano,
ovviamente. Le chiesi tutto d’un fiato se sapeva indicarmi qualche insegnate
per delle ripetizioni, visto che per il poco tempo e la mia impreparazione a
francese ero piuttosto indietro. Evitai con tutta la cura di cui ero capace di
pronunciare le fatidiche locuzioni “esame di lingua” e “impratichirmi con la
lingua”. Ero già abbastanza rossa, credo, da poter essere venduta come
peperone.
Sapevo già che lei era contraria
alle ripetizioni. Quello che non potevo sapere era che in qualche modo le
andavo a genio, perché si rese clamorosamente disponibile a fare un’eccezione.
Una settimana dopo ero a casa sua, per la prima lezione.
Catherine Parillaud.
Così c’era scritto sul
campanello. Quando lo suonai, il cuore mi batteva così forte da farmi temere di
scoppiare. Ma che cosa stai combinando, razza di cretina? mi dissi. Vuoi
metterti nei casini?
Quando arrivai in cima alle scale
al suo pianerottolo, avevo i capezzoli duri come sassi e il viso in fiamme. Lei
era lì, ad aspettarmi. Quel sorriso sulle labbra che amavo, odiavo, non capivo
e per cui mi bagnavo. Camicetta generosamente aperta sul decolletée, shorts di
jeans aderenti da ragazzina, gambe e piedi nudi. Uno schianto. Da venire lì,
sul posto.
“Bonne soir, ma cherie…..hai
avuto difficoltà?” mi disse gioviale.
Non so a cosa si riferisse, ma
non potevo risponderle che le stavo avendo adesso, le difficoltà, a recuperare
una respirazione normale. Né potevo dirle quello che stavo pensando….
‘Ti leccherei tutta’…..già, come
facevo a dirglielo?
Farfugliai un “no…grazie…buonasera
prof…”, che mi valse in risposta un “ma che prof…chiamami Catherine, almeno
quando siamo qui”. Si spostò per farmi strada, e a quel punto io ero già
perdutamente innamorata di lei.
Il suo sedere scolpito da qualche
grande artista della Grecia Classica mi sculettava graziosamente davanti, lungo
il corridoio che portava al suo soggiorno. Riuscii a distoglierne lo sguardo un
attimo prima che lei si voltasse nuovamente verso di me. Sperai che non si
fosse accorta del mio stato di libidine diffusa. Mi travolse con la sua
gentilezza ed il suo charme.
“Cherie….hai bisogno di
rinfrescarti? Sei tutta accaldata….” mi disse sorridendo. Il suo italiano con
accento francese mi faceva salire la pressione al pari delle sue gambe da
indossatrice. Al pari di quei piedini ai quali mi sarei buttata a quel punto
senza ritegno.
“N-no….”cercai di articolare,
“g-grazie….fa caldo….lei è molto gentile…grazie….”
“Dammi del tu, mi fai sentire più
vecchia di quello che sono…” mi disse ancora sorridendo mentre mi passava
accanto. Mi sbagliavo, o di quella sua mano che mi sfiorava delicatamente un
braccio nudo non ci sarebbe stato bisogno, a stretto rigor di logica? Tra le
cosce ero un lago….
Qui mi devo dare una calmata, mi
dissi, mentre prendevo posto al tavolo dove avrebbe avuto luogo la nostra
lezione.
Lei, la deliziosa diavolessa che
avevo di fronte e della cui lingua ero venuta ad impratichirmi, mi si era messa
di tre quarti. Lasciandomi ampia visuale del suo seno nudo sotto la camicetta.
Del suo capezzolo che sembrava addirittura più duro del mio. Che stava per
sfondare la mia, di camicetta. Per un attimo mi fulminò il pensiero che avesse
capito tutto, e che volesse sedurmi almeno quanto lo volevo io…..
Mi ridetti della cretina, più due
ceffoni virtuali. Mi disposi ad una noiosissima lezione che avrei seguito con
una fatica bestiale. Distratta dalla visione delle tette di Catherine, delle
sue cosce paradisiache. Stravolta dalla fatica di tenere lo sguardo altrove, ma
non troppo. Che non si capisse che ero a disagio, combattuta tra l’eccitazione
e l’educazione.
Alla fine di quell’ora ne sapevo
di francese meno di quando ero arrivata. Sapevo solo che ero cotta di quella
donna, a puntino. E che quella sera a casa mi sarei masturbata selvaggiamente,
come non mi capitava più da tempo.
Quel gioco sottile ingaggiato con
me stessa e forse con Catherine (non ci capivo nulla, il suo sorriso era più
enigmatico di quello della Gioconda, le sue maniere con me erano come il
movimento di un pendolo che oscilla, tra una seduzione accennata o la semplice
sollecitudine di una maestra verso l’allieva) durò qualche settimana.
Ero arrivata al punto da star
male. Dall’essere ad un millimetro dal giocarmi il tutto per tutto per avere un
segnale chiarificatore. Dal fermarmi come al solito sul limitare del mio
coraggio. Piccola lesbica infelice ed incompresa come lo ero stata per tutta
l’adolescenza. Solo che adesso la mia Maghella, la mia Biancaneve, la mia
Jacula era lì, in carne ed ossa. Potevo toccarla, e che il cielo mi fulminasse
se ne avevo il coraggio.
La sera, a casa, mi finivo di
ditalini. Poi vivevo nell’attesa della volta seguente. Di qualcosa che
arrivasse a succedere, ad aprirmi o chiudermi per sempre una porta. A mettere
fine a quella tortura. Una volta, appena seduta, mi ritrovai il suo piede in
grembo, con lei che diceva con voce che a me sembrava da ragazzina in vena di
seduzione: “Cherie….credo di essermi punta con qualcosa…vuoi guardarmi?...”
E io che cercavo di non sbavare,
e tutta seria le esaminavo la pianta del piede che avrei voluto baciare,
dilaniandomi al pensiero della mia lingua che leccava quel ben di dio a pochi
centimetri dal mio viso….Quella sera andai al frigorifero a prendere il
cetriolo più grosso che era rimasto dalla spesa settimanale. Il resto, ognuno
può immaginarselo.
Quel gioco finì, bruscamente, una
sera in cui a qualcuno che lassù evidentemente mi amava feci abbastanza
compassione da far succedere quello che successe.
Ogni volta che andavo da lei,
Catherine mi sorprendeva con un abbigliamento sempre più casual, chiamiamolo
così. Camicioni da sotto il vestito niente, ampie T shirt e nient’altro (credo)
che lasciavano da indovinare la presenza o meno di mutandine appena sopra la
linea dell’orlo. Se non voleva sedurmi, pensavo, allora doveva essere proprio una
bella zoccola per aprire in quello stato ad estranei. Ma forse non ero più
un’estranea. Forse…..ma chi aveva il coraggio di scoprirlo?
Ricordo la sera che andai da lei,
e mi aprì con niente addosso che un negligée praticamente trasparente, e sotto
niente. La vedevo praticamente nuda, come mamma l’aveva fatta. E lei non poteva
non aver colto il mio sguardo da respiro mozzato, il mio rimanere a bocca
aperta per più di quell’attimo necessario a ricomporsi da uno spettacolo
eccitante.
“Pardon, cherie….non ho visto che
ore erano…scusami, non mi sono vestita…ti dispiace se resto così?”
‘Brutta troia, come puoi farmi
questo??? Ti strapperei quel velo di dosso, e….’
“Certo, Catherine….”, arrangiai
come risposta. “Figurati….tra donne….” E deglutii vistosamente.
Ecco appunto…tra donne.
Ricordo quella serata in cui non
capii nulla di quello che mi veniva detto. Un calore dentro di me come se
avessi la febbre a 40. Una lotta interiore tra la voglia residua di mantenere
un contegno da studentessa e quella montante di mandare tutto a quel paese e
buttarmi a fare quel benedetto passo….
Fino a che il passo lo fece lei
per me.
“Cherie…..ma si può sapere che
cos’hai oggi? Se continui a guardarmi con quegli occhi da cerbiatta, andiamo a
finire male, io e te….”
Una morsa mi strinse in mezzo
alle cosce. Non ce la feci più. “Se continuo ad averti nuda davanti agli occhi,
spero solo di finire a letto con te”.
Prima che mi potessi rendere
conto di cosa avevo detto e fatto, mi arrivò un ceffone in pieno viso.
Sconvolta, con gli occhi che mi si riempivano immediatamente di lacrime,
raccolsi la mia roba e feci per correre via, avviandomi alla porta.
Non ci arrivai mai. Mi ritrovai
contro il muro, con le mani di Catherine che mi tenevano ferma, mentre lei –
rossa in volto peggio di me, evidentemente altrettanto stravolta – mi
rovesciava addosso un torrente di parole concitate.
“Oh….mia piccola… cherie…. perdonami…..io
non so cosa…..io volevo….sono una stupida….sono una stronza…..non dovevo…io non
so….perdonami, tesoro…..ti ho fatto male…..piccola mia…..”.
Mentre mi parlava, la sua mano mi
accarezzava il volto là dove prima mi aveva colpito. Il suo corpo ormai era
addossato al mio. I nostri volti a pochi millimetri. Stava per piangere, come
me. Stava sull’orlo del delirio – e capii finalmente, in quel momento – del
desiderio, come me.
Non ricordo se fui io o fu lei a
colmare lo spazio di quei pochi millimetri. Le nostre bocche si ritrovarono
unite in un bacio furioso. Due amanti che per troppo tempo si erano negate l’un
l’altra. Le nostre lingue avvinte, non erano più italiana, né francese. Erano solo
piene di libidine esplosiva, mentre ogni altra parte dei nostri corpi cercava
la corrispettiva.
“Oh, dio….Catherine…..ti voglio,
ti desidero….picchiami, buttami fuori di casa, coprimi di infamia, ma io non ne
posso più, amore mio……”
Mentre la spogliavo nuda
strappandole quel negligée che mi aveva fatto impazzire, lei mi infilò una mano
nei jeans e nelle mutandine. Mi sentì bagnata fradicia, e nell’attimo in cui le
nostre labbra si separarono per riprendere fiato, le vidi di nuovo in volto il
sorriso della Gioconda. E seppi che per settimane quell’opera d’arte vivente
aveva giocato con me. Aspettando che cadessi come una pera cotta ai suoi piedi.
Mentre mi spogliava nuda, la
lasciai fare e le chiesi: “Perché mi hai presa a schiaffi?”
“Era il mio modo di sedurti,
stupida…..”, disse ancora sorridendo.
Un attimo dopo, io non avevo più
nulla da chiedere, lei non poteva più rispondere. Si era inginocchiata davanti
a me. La sua lingua era tra le mie cosce. Io urlavo...
12 commenti:
bello, bello, bellissimo cara Lesbia mi sorprendi sempre, e come già detto il tuo narrare mi intriga sempre di più...devo dirti che la parte della fine della storia con Bettina la ho trovata sotto il tuo standard narrativo al quale mi, o meglio ci hai abituato e temevo ahimè (sono sincero cara Lesbia) una caduta del racconto e della storia....e invece mi sono sbagliato....questa nuova storia con Catherine è veramente splendida, anche qui le tue emozioni, i tuoi desideri, le tue perplessità me li hai fatti rivivere come se fossi con te, come se fossi nella tua mente nell'osservarti 'combattuta tra l'eccitazione e l'educazione'....non so proprio come ringraziarti per tutte quelle magnifiche emozioni che continui a regalarmi...un forte e affettuoso abbraccio :-)))))
antonius
io non so come ringraziarti delle tue parole, caro Antonius....ma vedi, il fatto è che quello che ho raccontato - almeno fino ad un certo punto, e mancano ancora diverse puntate - è né più e né meno che la mia vita....se qualcosa è stato sotto tono, lo è stata la mia vita, o perlomeno lo é adesso la mia capacità di rievocare....magari perché certi momenti te li ricordi o vorresti ricordarteli come fossero ora, e altri preferiresti soltanto averli dimenticati....no?
per quello che riguarda la storia, il bello deve ancora venire, mio caro......
ricambio l'abbraccio, forte ed affettuoso
Lesbia
il bello cara Lesbia io lo ho già trovato in questi primi tre capitoli...tensioni, emozioni, sensazioni me le rendi vive e attuali, quasi da toccare con mano...mi piace molto conoscerti anche leggendo i tuoi racconti che contengono molta parte della tua vita e non solo per quanto riguarda gli episodi ma anche le emozioni provate e le riflessioni fatte...non mi resta che attendere le nuove puntate...grazie...al forte ed affettuoso abbraccio che ricambio aggiungo un bacio :-))))))
antonius
Buonasera a tutti, volevo salutarvi. Ho deciso di partire per l’estero. Non so se e quando tornerò. Volevo ringraziare quelli di voi con cui in questi mesi ho avuto un bel rapporto, tramite la nostra Tippy. A proposito, per quelli interessati alla storia che sto scrivendo, è finita e consegnata. Tippy ce l’ha tutta e la pubblicherà, col tempo. Ormai è sua, non più mia. Io ho fatto la mia parte. Prima vivendo e poi raccontando. Un bacio a tutti. Buon proseguimento e arrivederci, se Dio vorrà.
Lesbia
Complimenti..bello, intenso, emozionante e coinvolgente
Mau
complimenti Lesbia! Bellissimo racconto.
Frank
grazie, Frank....il racconto non è finito...
....un giro in attesa del nuovo episodio, e, vista una magnifica presenza, ho sorriso di piacere
antonius
sempre carino, Antonius.....
io sono già all'estero, ogni tanto faccio un giro qui anch'io.....
vedo che Tippy è impegnatissima in questo periodo....sto pensando di aprire un blog mio, e pubblicare il resto del racconto, che è andato avanti, molto avanti......
baci, caro Antonius, a presto
Lesbia
carissima Lesbia è sempre un piacere leggerti e sapere che sei oltreconfine ed immagino, e spero, bene....ecco ci terrei molto ad avere un canale, un contatto con te per continuare, sempre che tu voglia, nelle nostre chiacchiere e leggere i tuoi racconti, i tuoi stati d'animo....ricambio i baci mia cara
antonius
ps avvertimi per ogni tua iniziativa
Caro Antonius.... che dire....... le cose non succedono per caso....
Sono oltre confine, ma ho scoperto che scrivere mi dà un gran sollievo, ed un gran piacere.... :-)))))
Siccome Tippy in questo periodo è estremamente impegnata e non ce la fà a stare dietro a tutto, di comune accordo abbiamo deciso che intanto il seguito di questa storia (e di altre) lo pubblico anche sul mio blog appena aperto.....
Si chiama: http://lesbia.myblog.it/
e domani troverai, tu e chi vorrà, l'aggiornamento alla quarta parte del mio racconto.
Baci, ci sentiamo anche da "Lesbia", tu e tuti quelli che avranno piacere di continuare a seguirmi....
bacioni
Lesbia
Ciao. Mi piace il tuo blog e vedere che condividono lo stesso hobby. Volevo chiederti una cosa per un fumetto che mi fa sembrare questa volta disperata e non lo trovo: sapere dove posso trovare una collezione di fumetti "I Dallas"? Ho potuto trovare solo le prime tre parti. Per il resto, molto bello il tuo blog e contributi. Saluti e spero che la tua risposta.
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